Attorno a Baikonur dopo ogni lancio piovono dal cielo le parti
sganciate dai razzi. Ma più preoccupanti sono i rottami accumulati in
orbita, a milioni, da 50 anni di imprese nello spazio. E da quel cosmodromo in Kazakistan è partito un satellite italiano per studiarli
È un giorno particolare per il Kazakistan. Un assembramento di giornalisti, fotoreporter, curiosi “assedia” tre astronauti, un russo e due americani. Domande insistenti da una parte, sorrisi di circostanza dall’altra, prima di salire a bordo della Soyuz. Poi iI frastuono del count-down, le fiamme e il fumo. L’astronave si proietta nel cielo per raggiungere la stazione spaziale internazionale (Iss). Siamo a Baikonur, il cosmodromo principale della vecchia Unione Sovietica: da qui sono decollate le missioni spaziali della Guerra Fredda, da qui continuano a partire le navicelle destinate ad allargare gli orizzonti dell’umanità. Grandi visioni che infiammano la repubblica delle steppe, sorta dalla disgregazione dell’Urss ed erede, nel bene (Baikonur) e nel male (il poligono nucleare non bonificato di Semipalatinsk), delle più ardite sfide tecnologiche del vecchio colosso. Le parole del primo ministro kazako Daniyal Akhmetov sono ambiziose: «Vogliamo diventare una vera potenza spaziale».
Per l’uso del cosmodromo di Baikonur, in terra kazaka, la Russia ha firmato nel ’92 un contratto valido fino al 2050, secondo l’accordo riconfermato proprio quest’anno. Spiega l’analista Vladimir Baltaga: «Date le caratteristiche tecniche dei lanciatori oggi in uso, questo sito garantisce un rapporto ottimale fra il carico utile e il peso complessivo del
dispositivo di lancio che proietta in orbita satelliti leggeri per le
telecomunicazioni, le rilevazioni meteorologiche e altri impieghi. Poiché
l’85% dei lanci è diretto verso le orbite geostazionarie proprie dei
satelliti per telecomunicazioni, l’uso di altri siti a altre latitudini
comporterebbe una perdita di carico utile e l’aumento delle dimensioni dei razzi e dei loro costi energetici». Magnifico. Però c’è qualche
inconveniente. Basta dare una occhiata nelle campagne circostanti il
poligono per accorgersene. Carcasse più o meno arrugginite nei prati,
laminati metallici a alta tecnologia stranamente usati per completare
baracche contadine, o rivenduti per ricavarne utensili. Sono i resti solidi
e corposi del sogno spaziale, e costellano il paesaggio. Il fatto è che la
tecnologia russa prevede il distacco dei serbatoi di carburante e dei
vettori prima del raggiungimento dell’orbita e la loro conseguente ricaduta
al suolo. E siccome la zona di Baikonur è piuttosto popolata, da questi
parti scrutare il cielo non ha solo il senso di una precauzione
meteorologica.
Il problema della spazzatura celeste che ricade al suolo non si limita però
soltanto ai vecchi serbatoi delle navicelle russe, né riguarda l’area
intorno al cosmodromo di Baikonur e basta. È un fenomeno mondiale e per studiare come fronteggiarlo il 29 giugno ha preso il volo da questa base il piccolo satellite Unisat-3, costruito dagli studiosi dell’Università di Roma La Sapienza e costato 155 mila dollari, un terzo dei quali spesi nel lancio. Unisat-3, spiega il professor Filippo Graziani, «fa collaudi tecnologici in orbita e conduce diverse ricerche». Tra i suoi compiti specifici, però, c’è soprattutto quello di esplorare il campo magnetico della Terra, rilevare la presenza di detriti cosmici, misurare la “spazzatura spaziale” intorno a Gaia su un’orbita eliosincrona a 730 chilometri d’altezza. «Attualmente», spiega l’analista Tina Tannenwald, «la sfera celeste è insufficientemente protetta, dal punto di vista ecologico».
Da quando, nel ’57, l’Unione Sovietica mise in orbita il primo Sputnik, la
presenza nel cosmo di rottami d’ogni genere è cresciuta a livello
esponenziale e la Convenzione per la registrazione degli oggetti lanciati
nello spazio extraterrestre, varata dalle Nazioni Unite nel 1975, è rimasta
lettera morta. Oggi si possono contare circa 4 mila satelliti in orbita
intorno al nostro pianeta, di cui solo il 6% è ancora attivo, mentre nelle
regioni più remote del sistema solare continuano a vagare oltre 200 sonde interplanetarie. In più, una sessantina di satelliti russi alimentati a
energia nucleare, ormai disattivati e alla deriva, perdono liquido
refrigerante. Ancora: nell’atmosfera terrestre sono state scoperte
recentemente da un gruppo di ricercatori della Nasa circa 80 mila sferette
di sodio radioattivo, grandi un centimetro, e oltre 3 milioni di goccioline,
superiori al millimetro, che ci stanno lentamente piovendo addosso. Non è tutto: sopra le nostre teste ci sono anche i Cosmos, i satelliti dell’ex
Urss alimentati con generatori termoelettrici a radioisotopi di plutonio
(Rtg), i quali hanno già provocato almeno due situazioni di emergenza
ufficialmente riconosciute, nel ’78 (nordovest del Canada) e nell’83 (oceano Atlantico).
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